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Largo con calma. Movimentato assai

Largo con calma. Movimentato assai

Io e l’Annina ci si sposò ad aprile, sotto una pioggerellina fitta fitta come una sassaiola di ghiaiòttoli che ci rese, se possibile, ancor più allegri e felici.

All’Annina avevo detto di arrivare puntuale al Santuario di Montenero, perché se avesse tardato, come fanno le ragazze che vanno in ispose, ne avrei avuto certamente preoccupazione e malumore.

“Non mi mettere furia, mi sposo una volta sola nella vita e voglio vestirmi bene.”

E bene si vestì, Reverendo Padre, non dubiti. Splendeva di gioventù nel suo vestito appena appena scollato che portava con singolare ma straordinaria disinvoltura. Ostentava una sicurezza nei movimenti che mi lasciò attonito, come se non avesse fatto altro che sposarsi in tutta la sua vita. Portava in mano un mazzo di fiori di campo che depose sotto l’immagine venerata della Vergine protettrice.

Quanto più l’Annina mostrava sicurezza, tanto più io mi sentivo impacciato, impacchettato com’ero nel vestito che mi aveva prestato ora non ricordo chi. Ero rigido, rappreso. Mi muovevo a fatica e cercavo di restare il più possibile fermo per non mostrare disagio o imbarazzo.

Officiò la cerimonia un frate francescano anziano, che dal pulpito dei suoi novant’anni biascicava il Vangelo come risucchiasse una minestrina di magro, ma l’Annina non vi fece bada. All’ingresso qualcuno aveva già improvvisato una strofa sul motivo della Marcia Nuziale, invitando gli sposi a non compiere quel passo per evitare possibili tradimenti ed essere indicati a dito dalla gente.

L’Annina pronunciò il suo con voce chiara e sicura. Io, invece, la voce dovetti schiarirmela un paio di volte o tre. Baciai l’anello prima di infilarglielo al dito. Mi sentivo grato a lei e al mondo intero per avermi preso come marito e avermi atteso tanto e per la prima volta mi sentii in pace. L’Annina mi aveva redento. Di quella redenzione umana gratuita e a perdere, senza chiedermi nulla indietro.

S’andò a desinare dalla nonna Lina1, in pace, mentre fuori continuava a piovere. Ma di quella pioggia dolce, costante, che non si ferma mai, e che intride i vestimenti di un umidore che a malfatica si avverte.

“Ti sei bagnato? Non ti preoccupare. Questa è acqua scema!”

L’Annina parlava, e ogni espressione che proveniva dalle sue labbra rigonfie e carnose, pareva portarmi un senso di sicurezza e di gratitudine verso quella donna che non aveva fatto altro che aspettarmi con pazienza e tenacia per tutta la sua vita, e senza mai darmelo ad intendere.

E le baciai, quelle labbra, la sera, quando ci ritirammo. Non era nemmen stanca di tutte quelle grida di “Viva gli sposi!“, di tutte quelle parolacce grevi e volgari che, pure, a Livorno non mancano neanche negli sposalizi. Sì, Reverendo Padre, le baciai come avessi posato la bocca incerta su una sacra immagine. Perché non v’era altro in lei che l’aura di sacralità impressa dal rito del matrimonio. E mi resi conto, allora stesso, che nessuno mai avrebbe turbato quella pace che era in lei, che era in me, pura, sconosciuta, rotta a tratti solo dallo squillare argentino della sua allegra consapevolezza di essere sposa.

Pace ne ebbi anch’io, e in abbondanza.

Presi a lavorare presso un negozio gestito da una coppia di coniugi anziani, e che vendeva granaglie, legumi secchi e cereali al dettaglio. L’Amelia -così si chiamava la proprietaria- aveva passato più di metà della sua vita a incartar fagioli, lenticchie, orzo e riso nel foglio giallo che andava bene per qualsivoglia sorta di cibo si volesse comprare, dal pesce alla carne. E siccome di carne se ne vedeva assai poca, l’Amelia sopperiva ai bisogni alimentari della clientela piegando e ripiegando con abilità quegli involti destinati a chi aveva da badare più al borsello che al portare il necessario mangiare in casa.

“Ecco, signora, mezzo chilo di ceci, di quelli nostrani… vedrà che oggi mangia bene!”

Suo marito Agenore, invece, vedeva e rivedeva i conti che non gli tornavano mai. Bagnava con la saliva la punta del lapis copiativo, pigliava un foglio di quelli da incarto e lo riempiva di numeri che segnava come volesse interrogarli uno per uno, e la cui somma, vuoi per imperizia, vuoi per i clienti sempre meno disposti a spendere, non gli tornava mai. Si riponeva la matita dietro all’orecchio, ripassava le palme delle mani sul grembiale e suggellava i suoi calcoli mormorando:

“Anche stasera si fa il giro del tavolino!2

Io trasportavo i sacchi pieni di tutto quel ben di Dio. A volte Agenore non aveva di che pagarmi, e allora mi permetteva di portarmene un po’ a casa, dove l’Annina mi aspettava con gli occhi lustri dalla contentezza.

“Fagioli borlotti… bòni! Stasera ci si fa la minestra coi paternostri3… vammi a prendere un po’ d’aglio, una pementa4 e un rametto di ramerino5, vai, che si sgrofogna6!”

I mesi passarono, senza che me ne accorgessi, in quel delicato equilibrio che mi aveva fatto passar di mente perfino l’onta che mi avrebbe accompagnato per l’esistenza intier, quella di aver ammazzato un uomo.

Spesso io e l’Annina si ragionava del far figliuoli, e del fatto che ormai era ora che ci si desse da fare.

“Allora, citrullone, lo vorresti un maschio?”

“E lo vorrei sì!”

“Ecco, lo vedi che sei citrullo? Femmine, ci vogliono. Son più intelligenti. E poi una mano in casa mi ci vuole davvero.”

“O perché, i maschi cos’hanno, son stupidi?”

“No, ma se cresce come su’ padre si sta lustri!7

Tutta la gente del rione diceva che l’Annina se la gallina non le faceva due uova al giorno non la teneva in casa. Ed era vero, a volte, ma io mi sentivo pervadere e riempir di pace, e ben volentieri soprassedevo alle sue fisime di brava massaia attenta all’economia domestica.

Il destino, tuttavia, Reverendo Padre, non guarda alle vicende degli umani. Semplicemente pare compiacersi di variarle, come fossero statuette di cera.

Di lì a poco l’Annina si mostrò via via sempre più taciturna. Si rinchiuse in un mutismo che non lasciava presagire nulla di buono, se non la catastrofe che di lì a poco si sarebbe abbattuta sulla nostra vita di sposi e nella mia, quella del Suo umile servitore che le indirizza queste memorie.

“T’ho da dire.”

“O che sarà mai?”

“Mettiti a sedere.”

Mi sedetti che le gambe mi tremavano, e fu un bene che agguantassi per la spalliera una di quelle seggiole impagliate che avevamo in casa.

“Aspetto un bimbo.”

Me lo disse con le gote solcate da due lacrime asciutte. Pareva le si fossero congelate sul viso, tanto erano rapprese in un grumo di amaro sale, lo stesso che ci viene spacciato il giorno del battesimo per viatico della sapienza.

“Non sono sicura che sia tuo.”

Seguì un silenzio rotto solo dal suo respiro affannoso che dovette darle, se possibile, un certo sollievo, di quelli che arrivano a liberarci le braccia dopo che si è trasportato un peso eccessivo.

Io mi sentii invadere il cervello da un fiotto di sangue. Mi premeva la testa, obnubilando qualsiasi altro pensiero e facendo del mio sentimento uno stallatico buono ormai per concimare i campi. Poi, repente, uno sbocco di lucidità.

“Chi è stato, Annina… chi? Dimmelo, subito, o quant’è vero Iddio faccio uno sproposito!”

“Quanti spropositi fai te! O che vuoi fare? Ammazzare anche lui. O non ti basta una vita che hai levato dal mondo? Ammazza me. Me, piuttosto, che son stata zitta tutto questo tempo a sentirmi marcire il ventre mentre ti lavavo le mutande…”

Non parlammo più per ore. Di quelle ore che cercai di ingannare riportandomi alla ragione che non voleva saperne, al contrario, di ricondurmi a lei.

C’era in casa del vino e ne bevvi mezzo fiasco. Ma non mi bastò. L’Annina continuava a tacere, stolida, testarda, immersa nel sigillo del suo segreto che mi assordava.

La sera ci coricammo, come sempre. Ma non era come sempre. Quando si tolse la veste, lasciando semiscoperti quei seni che non avrei mai più toccato, mi guardò con occhi ch sembrava mi sfidassero, interrogativi, a una qualsivoglia reazione. Si aspettava che la picchiassi, che sfogassi su di lei la rabbia che mi aveva instillato nelle vene e che mi scorreva nel corpo, ormai priva di requie.

Il Nelli…”

Cosa?”

“È stato il Nelli.”

“Il Nelli… ci sei andata a letto, allora…”

“No. Sul pavimento. E anche sul tavolino di cucina.”

Mi rimisi alla svelta la camicia e i pantaloni e raggiunsi il mare. Di notte pareva mi fosse restato amico soltanto il suo continuo sciabordare. E quella schiuma biancastra che raggiunge la riva e che scompare, prima che il mare si ritragga a ritrovar se stesso. Non so dire se piansi o se mi limitai a imprecare la Divina Provvidenza, e non so nemmen dire quanto tempo restai a guardare la distesa d’acqua che bagna Livorno e le dà riposo.

Ma so che vidi spuntare l’alba del giorno che mi avrebbe maledetto per sempre.

1Rinomato locale di ristorazione di Livorno

2Non si mangia. Si noti anche l’espressione “...e per contorno si fa il giro del tavolino.

3Ditali rigati.

4Peperoncino

5Rosmarino

6Si mangia a crepapelle.

7C’è di che preoccuparsi.

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