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Andante. Finale con fuoco

Andante. Finale con fuoco

Reverendo Padre,

avendo avuto Ella la bontà di interessarsi alla mia persona e alle circostanze che hanno portato alla mia detenzione, spingendomi e incoraggiandomi a scrivere della mia vita disgraziata, vorrei lasciare qui, e Dio solo sa, non io, con quale destino, il resoconto del mio terrificante cammino, che non augurerei mai a persona viva di ripercorrere da capo.

Certo, vorrà perdonarmi, Lei che mi legge, se queste memorie risulteranno disordinate e perfino a tratti incoerenti, ma ho l’intima e serena consapevolezza che saprà venire a capo, Lei che è uomo di mondo e di cultura -come se ci fosse differenza!- di tutto ciò che sgorga dalle sorgenti della narrazione, che è la medesima del mio spirito, del mio, quello di Armando Verticelli, figlio di Francesco Verticelli e Armida Costantini, già vedova Verticelli, nativi di Livorno, perché perfino l’anagrafe vuole che le si paghi il fio con le parole.

Di certo non mi considero una persona malvagia. Come tutti sono nato senza macchia alcuna, integro, puro, e pronto ad accogliere ciò che i miei genitori desideravano per me: una vita ripiena di amore, soddisfazioni, speranze. Una vita, in breve, che non fosse la loro.

Ma noi esseri umani, mio caro interlocutore, siamo fatti di cera e ci sciogliamo ai primi calori del sole. Diventiamo altro da noi. Modellabili, plasmabili e financo rendevoli alle dita del destino che ci accompagna per i sentieri della vita.

È per questo che amo e ho sempre amato l’inverno. Perché ci permette di essere interi.

Mi chiamo Armando perché così si chiamava mio nonno materno. Era un bell’uomo, alto e di sembianze gradevoli, che faceva girare la testa a tutte le donne, in età da marito o amche già sposate, che lo incontravano per istrada.

“O Armandino, o che le vorreste du’ òva da bere? Vi farebbero comodo? Venite, entrate, son fresche!”

Ma lui, mio nonno, preparava già il suo sposalizio con una ragazza dal carattere spigoloso e arcigno come il suo nome, Angiolina. Tutti portavano lo stesso nome in quella famiglia. Angiolina lei e Angiolo il fratello. All’infuori della più piccina, che si chiamava Elena, un nome da Regina, e che si allontanò ben presto dalla casa paterna, avendo avvertito da tempo il malodore che vi tirava.

Poi venne la guerra e di mio nonno non si seppe più nulla. Finché ritornò, placido ed essenziale come era sempre stato. A desinare gli bastava un culo di pane e un piatto d’insalata, che condiva con tanto sale, tanto aceto e poco olio, come piaceva a lui, a dispetto del detto toscano che vuole l’insalata “con poco aceto e bene oliata“. Poi fumava mezza sigaretta e si dava a leggere qualche libro di storia rimediato chissà dove.

Della mia famiglia di origine le ho già accennato. Del ricordo di mio padre, che Dio lo perdoni, conservo una immagine vaga e nebulosa. In realtà lo conobbi appena, prima che una coltellata inferta da un tizio che tutti dicevano Sangueamaro, ponesse fine alla sua vita terrena di truffatore e frequentatore -certo, a suo mal grado- delle patrie galere, per le persecuzioni che ebbe a patire dalla giustizia. Prego Iddio che lo conservi nella sua gloria, dato che il Vangelo lo definisce “beato1.

Mia madre, da vedova qual era, non ebbe nemmeno il tempo di portare il lutto. Decise di vivere in bontà e onestà, perché buona e onesta lo era in animo e in spirito. Si diede da fare per mantenere me e mia sorella Benedetta, di appena due anni più piccola di me, facendoci da madre e da padre allo stesso tempo, senza profferir verbo, mettendosi a servizio di certi signori del quartiere di San Jacopo in Acquaviva, che si trova in questa città, dalla cui casa Circondariale mi permetto di inviarle questo memoriale e dalla quale. Per tutta la mia grama esistenza, non mi sono mai mosso.

Conobbe un brav’uomo, un pescatore, vedovo anch’egli e padre di tre figli e lo sposò in seconde nozze dopo qualche tempo, più per farsi compagnia, come si diceva a quei tempi e come si direbbe ancor oggi, che per vero amore umano e carnale. Costui ci portava spesso del pesce a casa, cosa che io gradivo moltissimo, e gli volevo bene per questo. Che fossero triglie, o seppie, o muggini, o perfino, quando ce n’era, qualche cappone di scoglio o un battibatti di rinforzo, io mangiavo con gusto e dedizione tutto quel ben di Dio. Son sempre stato da bosco e da riviera, io, ma soprattutto da scoglio.

E fu così che a forza di mangiare ora un polpo in guazzetto e ora una seppia rifatta in umido coi piselli, crebbi in robustezza e armonia, doti che corroborai con qualche bagno fuori stagione, di quelli in cui l’acqua è ancora fredda e che lasciano al nuotatore quel senso di pizzicore sulla pelle che se ne va solo dopo che si è sdraiato a riposare una mezz’ora su una roccia di Calafuria, mentre il respiro riprende il suo ritmo naturale, cadenzato, e l’invasione annuale dei bagnanti che vengon di fuori è ancora di là da venire.

Benedetta, mia sorella, aveva sempre, al contrario, un’aria pallida e contrariata insieme. Studiava di malagrazia e a scuola era sovente cheta e buttata in un angolo. Non che non le interessassero gli studi in sé, ma si mostrava pigra e indolente.

“Ma cos’hai, Nini, che sei sempre bianca come un cencio? Ma mangi?” le chiedevano.

“Un lo so cosa ciò. Sto bene così, o cosa volete da me?” replicava di rimbalzo.

Si fece venire addirittura un dottore di fuori, pagandolo una fortuna che nemmeno avevamo. Ricordo che mia madre dovette mettergli per iscritto qualche pagherò, ma la Benedetta non ne voleva sapere di nulla e di nessuno, tanto meno di guarire. Cresceva, questo sì, ma la sua apatia e la sua magrezza l’accompagnavano di pari passo. Si pensò, da principio, di darle una cura di punture di ricostituente, di quelle che fanno “tanto bòno“, come diceva il mio patrigno acquistatp, ma il dottore diagnosticò, per contro, un male più oscuro, un mal sottile, su cui nemmeno lui poteva, in verità, far molto.

“È triste e pallida? Riderà quando andrà in isposa. Intanto fatele prendere un po’ d’aria bòna, vedrete che si ripiglia e poi mi rammentate.”

Di fisico non si ripigliò mai. Ma accennava qualche malcelato sorriso ogni volta che Sandrino il Nelli, il figliolo del tortaio2, veniva, con la scusa di cercare uno scorfano sciupato o qualche pesce da zuppa, a casa nostra.

Il Nelli non lo potevo soffrire. Mi sembrava che avesse sempre qualcosa da nascondere, con quel risolino da ebete, sempre sospeso tra l’inganno e la verità di una intelligenza che, se c’era, era quanto meno ben rimpiattata. Sembrava covasse un rancore mai sopito, anche se non mi fu mai chiaro del tutto nei confronti di chi o di che cosa.

Ma Benedetta gli voleva bene, certo, a modo suo. Lo chiamava affettuosamente “lo Strullo“, perché pareva non accorgersi degli ammiccamenti che ella pur gli mandava col suo corpo sottile, quando si levava dalla sèggiola per andargli a prendere un bicchierino di rum di contrabbando che gli versava in un bicchierino sùdicio e rimediato alla meglio tra i pochi che avevamo in casa.

“Sa di vecchio”, osservava il Nelli.

“Eh, per senza nulla cosa volevi, un giovanottino di primo pelo?”, gli ribatteva mia sorella.

E fu così che, perdurando le bevute e le visite in casa, mia sorella andò in isposa di quel tànghero e, dopo quattro mesi, aspettava di già il suo primo figliòlo. Lo sentiva che era un maschio, e per questo, quando ragionava del frutto del rancore che portava in grembo, lo chiamava Charlie.

“Sicché quel pezzo di merda t’ha messo incinta, via…”, ebbi a dirle una volta che venne a farci visita.

“Dé3, o cosa pretendevi che facesse, che mi raccontasse la novella4 di Buchettino5?”

“O perché il bimbo lo chiami Charlie?”

“Perché mi sa di guerra. E poi fatti i cazzi tùa!”

Col proseguire della gravidanza, mia sorella prese a deformarsi. Quel corpo esile, magro e minuto si tramutò in un gonfiore che non garbava punto a nessuno. Nemmeno alla Armida, la vicina, che di figliuoli non ne aveva mai avuti.

“O bimba, guarda lì che pancia ti ritrovi! Fra pochino il bimbo lo pigliano militare!”

“E se no lo mando a piantà’ le zizzole6…”

“E fai bene, è già un torello!”

“Poverino, un è ancora nato e cià già du’ palle da competizione e du’ corna sul capo. Ora dimmi te!”

I mesi successivi Benedetta li passò a contemplare la sua deformità e a dir poco o nulla.

“Guarda lì, paio una botte!”

“Meno male, almeno si beve!”, azzardò il Nelli.

“Bevi dell’altro, deficiente, mi raccomando!”

Ed arrivarono per lei i giorni del parto.

Era sempre più apatica, distaccata e sarcastica. Il suo ventre pareva impartire il ritmo al levarsi e abbassarsi del lenzuolo che la copriva nel letto in cui era costretta da più di una settimana. Piedi e gambe le si erano gonfiati a dismisura, ma quell’esoso del Nelli sembra non darsene nemmen per inteso. A chiunque gli chiedesse come stesse sua moglie, andava rispondendo sempre la solita sinfonia:

“Bene, bene… o come volete che stia… son donne e ci vuol pazienza.”

E fu proprio l’Armida a venirmi a cercare una sera di dicembre, proprio di questi tempi in cui Le scrivo, per dirmi che la Benedetta avevano dovuto portarla all’ospedale e che il Nelli non si trovava in giro.

“Sarà all’osteria, come al solito. Del resto, Armida, è più facile quello che morì’ santi”, aggiunsi.

“Gesù ci liberi tutti, tutti…”, chiosò lei.

Raggiunsi gli Spedali Riuniti trafelato e col cuore che pareva volersene uscire dal petto. Un senso di rabbia e di furia mi pervase per la prima volta. Non ne ebbi paura. Ma non ne comprendevo la causa, né dove dovesse andare a sfociare quel fiume carico di detriti che si gonfiava a dismisura e pareva uscirsene dagli argini malandati che gli avevano costruito gli umani. La mia consapevolezza di quei sensi era, tuttavia, così netta e trasparente, come se me la porgesse una coppa di cristallo. Capii molto bene e prima di subito che non se ne sarebbe mai più andata.

Avevan cercato e continuavano a cercare il Nelli. Ma non si trovava. Pareva svanito come una tromba d’aria verso lo scoglio della Meloria.

Cercai di individuare la camerata in cui si trovasse mia sorella. Nessuno pareva sapesse darmene notizia. Poi fu un infermiere che, vedendomi in quello stato di agitazione consapevole e mai provata insieme, ebbe a dirmi che l’avevan trasportata in osservazione, perché la cosa si era fatta più complicata di quello che mi figuravo.

E fu così che lì attesi. Cinque ore in cui l’unico che si mosse a compassione fu un signore che mi offrì mezzo del suo sigaro. Non avevo mai fumato prima di allora, e quello che avevo sempre avvertito come un odore acre e persistente sembrava quasi che mi schiudesse i polmoni e mi agevolasse il respiro affannoso che mi entrava fin nei bronchi.

Finché uscì un’infermiera che, con viso tirato, si precipitò a far bollire quello che mi parve un paiolo d’acqua, nonché una siringa di vetro, per poi correre di nuovo al capezzale della paziente.

Poi, ancora mezz’ora senza saper più nulla.

Il medico varcò la porta del salone d’attesa con uno sguardo che intesi subito come di superiorità e di sfida. Non avrà avuto più di una trentacinquina d’anni, ma parlava con una boria e un’alterigia che aumentarono, se fosse stato possibile, lo stato dell’ira che sentivo traboccarmi nel cervello. Egli aveva il camice ancora macchiato di sangue, e portava due occhialini tondi e fissati dietro alle orecchie da due stanghettine ricurve e a molla dorate ma consunte.

“Abbiamo cercato di contenere la posizione podalica e già gravemente compromessa del feto, anche con l’utilizzo del forcipe7. L’operazione ha causato una pur prevedibile depressurizzazione del liquido amniotico, causata dall’evento emorragico e dall’esiguità dello spazio di contenimento del canale vaginale, con conseguente asfissia. Il feto presentava una conformazione abnorme del cranio ed è risultato, con tutta evidenza, idrocefalo. La sopravvivenza, in questi casi, si può stimare tra le poche settimane e i sei mesi al massimo. Ad ogni buon conto, il feto è nato morto. Può vedere la paziente, ma non più di un minuto.”

“Oh, sei qui?”

La voce di Benedetta era flebile e sembrava arrivare da una radio mal sintonizzata.

“Come ti senti?”

“Mi sembra che m’abbiano infilato un quintale di ricci nella pancia. E poi più giù. Mi tieni la mano, Tatino?”

Non mi chiamava più così da quando si giocava coi figlioli del Cacini, che era venuto a stare a Livorno da tre mesi, davanti a casa loro. E lei mi diceva:

“Tatino, un ciò voglia di camminare. Mi ci riporti a casa in bicicletta?”

“E dove l’ho la bicicletta?”

“Allora stai zitto e pedala!”

Seguì un silenzio che si prolungò per alcuni secondi che si dilatarono assieme alle mie pupille insanguinate di pianto e dell’ira funesta che tutti ci pervade, eroi o delinquenti che siamo.

“Almeno se era nato vivo. Lo avrei lasciato al mondo come fa Livorno coi su’ figlioli. Hai presente Modigliani? O Tatino, o come faceva quella poesia che c’insegnò la Maestra Arquati da piccini? Dài, me la dici?…”

Mormorai:

Anima mia, fa’ in fretta.

Ti presto la bicicletta,

ma corri- E con la gente

(ti prego, sii prudente)

non ti fermare a parlare

smettendo di pedalare.

Arriverai a Livorno,

vedrai, prima di giorno…8

La vidi chiudere gli occhi, come se dormisse. Ma riprese:

“Noi la bicicletta un ci s’è mai avuta!”

Le baciai la fronte che scottava del suo dolore e uscii.

Il Nelli dov’era? Dov’era quell’infame mentre sua moglie si dissanguava e si massacrava le viscere di dolore per dare alla luce suo figlio, che luce non avrebbe mai visto?

Lo cercai per più di due ore, prima al “circolino”, come lo chiamava lui, dove era solito frequentare un gruppo di anarchici perdigiorno e vagabondi come lui. Poi mi avviai verso la Stazione e, preso che fui da un’intuizione che mi apparve come una folgore in mezzo alla tempesta, all’osteria di via Del Vigna. E lì lo trovai. Ubriaco che non si reggeva ritto, gonfio di vino e di risa sguaiate e volgari che compartiva con una donna parecchio più anziana, e che aveva la voce arrochita dal tanto fumare le Nazionali Esportazione che qualche avventore le regalava in cambio di qualche lavoretto, di quelli che pareva sapesse fare solo lei.

“Dov’eri, nato d’un cane? T’ho cercato mezza giornata per tutta la città…”

“Dé, o dove volevi che fossi? Qui, con la Lola! Lo vuoi un poncino9?”

“Guarda, Nelli, che stasera con me hai trovato una mattinata che non ti passa più…”

“Come quella di Leoncavallo?”

E giù, di nuovo, risate scomposte e fuori luogo. La Lola sembrava una vecchia incartapecorita e lui, il Nelli, più che quella rideva e più faceva il gesto di versarsi da bere, risultando ridicolo nel suo non rendersi affatto conto che il fiasco si era ormai svuotato e che c’era poco da mungergli il collo.

“Il tu’ figliolo è nato morto. Hai capito, Nelli? Morto.”

La Lola smise di ridere di colpo e quell’infame del Nelli si fissò con gli occhi sul bicchiere ancora tinto del rosso delle Cantine Sociali in cui si era affogato. Il suo silenzio era più di uno schiaffo che echeggiava dal Cisternone al Quartiere San Marco.

“Attento, Nelli, che ti marco stretto. Falla fuori dal vaso e t’ammazzo come un polpo rivoltato e sbattuto sugli scogli.”

Avevo di nuovo bisogno di respirare. Il sole tramontava in fretta, di là dal porto, e io sentivo nelle nari l’odore misto di salmastro e nafta che lo caratterizza. Tornai all’ospedale che già l’oscurità lasciava piovere l’umido della sera e il buio veniva solcato solo dai lampioni che la rischiaravano coi loro aloni di lume. Il silenzio, il bicchiere sporco di vino sofisticato10, il forcipe.

Lo attesi per un tempo che non seppi nemmeno calcolare. Venti minuti, mezz’ora. O forse qualcosa di più. Il respiro mi si condensava e il freddo si era fatto tagliente come uno di quei coltelli che servono per ridurre i totani in rondelle.

Lo vidi uscire dal portone principale. Pareva tranquillo. Mi avvicinai e si rivolse verso di me fissandomi, per non più d’un batter di ciglia, con quegli occhi sormontati dagli occhiali tondi che gli si erano posti di tralice.

“Buonasera…” credetti di udire.

Mi feci più da presso a lui, cercando di lasciarmi riconoscere, proprio nel momento in cui un refolo di vento aveva spazzato via la nebbia in piccoli banchi che striava la visuale.

Fu allora che lo presi. Non sembrò neanche sorpreso e per un frammento di tempo, di quel tempo che avvertii come eterno, ebbi come la sensazione che mi stesse aspettando.

“Ora te lo do io il forcipe, assassino!”

Gli sussurrai questa frase all’orecchio e subito glielo morsi affondando i denti nella sua cartilagine senza mollarla finché non ebbi in bocca chiaro il sentore del suo sangue avvelenato di prosopopea scevra da qualsiasi umanità che immediatamente sputai per il disgusto. Lo tenevo saldamente per il collo e mi fu fin troppo facile farlo inginocchiare come a chiedere pietà, cosa che non fece. Mi arrivò di colpo alle narici l’odore acre delle sue urine che sapeva di paura e lo stesi, mezzo rintontito, con una pedata che lo centrò in piena bocca facendogli fuoriuscire un altro fiotto di sangue imputridito che andò a stamparsi sul selciato e lì rimase.

Poi mi concentrai con le ginocchia contro il suo petto e premetti fino a sentire lo schicchiolio sinistro delle sue costole che si frantumavano sotto il mio peso.

“Oh, mammina…” fece in tempo a dire, con gli occhi già mezzi vitrei e fuori dalle orbite.

Subito dopo il sangue dovette cominciare a fuoriuscirgli dai polmoni o da chissà dove, perché lo sentivo gorgoliare in un gargarismo mortifero prima, in un rantolo dopo e, infine, nell’ultimo sibilo del suo lurido respiro. Puzzava ancora. Restai così su di lui ancora un minuto almeno. Egli non era più.

Mi accovacciai accanto a lui, muto. Le grida della gente che mano a mano accorreva su quel piazzale polveroso mi giungevano ovattate e distanti. Di certo qualche donna doveva avere urlato di spavento, alla vista di quell’ammasso di vermi da sepolcro così ridotto, ma io non la udii.

Vennero a prendermi di lì a poco.

1“Beati i perseguitati dalla giustizia perché di essi è il Regno dei cieli”, Matteo, capitolo V, Discorso sulle Beatitudini.

2Professione diffusa a Livorno presso alcuni fornai. Consiste nel preparare una farinata di ceci cotta a legna in grosse e penati teglie di rame, detta torta.

3Intercalare livornese. Intraducibile.

4Favola, storia per bambini.

5Personaggio immaginario. La storia di Buchettino non esiste.

6Frutti assai diffusi nel Livornese, dalla polpa acidula e dal gusto simile alla mela.

7 Dal lat. forceps -ĭpis ‘tenaglia’

8Il testo è l’incipit della poesia Ultima Preghiera di Giorgio Caproni.

9Ponce alla livornese, bevanda calda a base di caffè, zucchero, rum scuro e scorza di limone.

10Adulterato

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