Valerio Di Stefano MALINVERNO Sinfonia picaresca in forma di romanzo Youcanprint Titolo | Malinverno Autore | Valerio Di Stefano ISBN | 9791221478341 © 2023 - Tutti i diritti riservati all'Autore Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore. Youcanprint Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce www.youcanprint.it info@youcanprint.it A Livorno. Sempre. Lettera di accompagnamento CASA CIRCONDARIALE "LE SUGHERE" LIVORNO Al Reverendo Don Giuseppe Tripalle già Cappellano di questo Istituto di pena Suo Domicilio Livorno, 28 giugno 1962. Reverendo Don Giuseppe, Le invio, allegato alla presente, l'involto che il defunto detenuto VERTICELLI Armando, fu Francesco, volle indirizzarle, con preghiera fatta « in articulo mortis », direttamente alla mia persona. Poiché è vero, come dice Plinio, che non esiste scritto che, di per sé, non contenga qualcosa di buono per chi lo dovesse leggere, mi auguro che le memorie dell'anima sventurata del Verticelli, che tutti qui chiamavamo Armandino, possano andare a conoscenza di molti e che molti ne traggano beneficio. Ragion per cui, lo affido alle Sue cure, che so già saranno benevoli e misericordiose di perdono nei confronti di chi lo ha scritto. Armandino è morto con il conforto del Sacro Crisma dell'Unzione degli Infermi, in piena serenità e coscienza di spirito, perdonando tutti e a tutti chiedendo perdono. Egli si è sempre adoperato per l'aiuto dei suoi compagni di detenzione e, pur non avendo mai mostrato segni di pentimento, sono certo che l'Altissimo ne avrà pietà, chè a Lui è riservata la giustizia, non certo al miserevole sistema giudiziario umano. Il medico di questa Casa Circondariale ne ha constatato il decesso per infarto acuto del miocardio. La prego di ricordarmi nelle Sue preghiere. Suo Dott. Nedo Caciagli Direttore. ANDANTE. FINALE CON FUOCO. Reverendo Padre, avendo avuto Ella la bontà di interessarsi alla mia persona e alle circostanze che hanno portato alla mia detenzione, spingendomi e incoraggiandomi a scrivere della mia vita disgraziata, vorrei lasciare qui, e Dio solo sa, non io, con quale destino, il resoconto del mio terrificante cammino, che non augurerei mai a persona viva di ripercorrere da capo. Certo, vorrà perdonarmi, Lei che mi legge, se queste memorie risulteranno disordinate e perfino a tratti incoerenti, ma ho l'intima e serena consapevolezza che saprà venire a capo, Lei che è uomo di mondo e di cultura -come se ci fosse differenza!- di tutto ciò che sgorga dalle sorgenti della narrazione, che è la medesima del mio spirito, del mio, quello di Armando Verticelli, figlio di Francesco Verticelli e Armida Costantini, già vedova Verticelli, nativi di Livorno, perché perfino l'anagrafe vuole che le si paghi il fio con le parole. Di certo non mi considero una persona malvagia. Come tutti sono nato senza macchia alcuna, integro, puro, e pronto ad accogliere ciò che i miei genitori desideravano per me: una vita ripiena di amore, soddisfazioni, speranze. Una vita, in breve, che non fosse la loro. Ma noi esseri umani, mio caro interlocutore, siamo fatti di cera e ci sciogliamo ai primi calori del sole. Diventiamo altro da noi. Modellabili, plasmabili e financo rendevoli alle dita del destino che ci accompagna per i sentieri della vita. È per questo che amo e ho sempre amato l'inverno. Perché ci permette di essere interi. Mi chiamo Armando perché così si chiamava mio nonno materno. Era un bell'uomo, alto e di sembianze gradevoli, che faceva girare la testa a tutte le donne, in età da marito o amche già sposate, che lo incontravano per istrada. "O Armandino, o che le vorreste du' òva da bere? Vi farebbero comodo? Venite, entrate, son fresche!" Ma lui, mio nonno, preparava già il suo sposalizio con una ragazza dal carattere spigoloso e arcigno come il suo nome, Angiolina. Tutti portavano lo stesso nome in quella famiglia. Angiolina lei e Angiolo il fratello. All'infuori della più piccina, che si chiamava Elena, un nome da Regina, e che si allontanò ben presto dalla casa paterna, avendo avvertito da tempo il malodore che vi tirava. Poi venne la guerra e di mio nonno non si seppe più nulla. Finché ritornò, placido ed essenziale come era sempre stato. A desinare gli bastava un culo di pane e un piatto d'insalata, che condiva con tanto sale, tanto aceto e poco olio, come piaceva a lui, a dispetto del detto toscano che vuole l'insalata "con poco aceto e bene oliata". Poi fumava mezza sigaretta e si dava a leggere qualche libro di storia rimediato chissà dove. Della mia famiglia di origine le ho già accennato. Del ricordo di mio padre, che Dio lo perdoni, conservo una immagine vaga e nebulosa. In realtà lo conobbi appena, prima che una coltellata inferta da un tizio che tutti dicevano Sangueamaro, ponesse fine alla sua vita terrena di truffatore e frequentatore -certo, a suo mal grado- delle patrie galere, per le persecuzioni che ebbe a patire dalla giustizia. Prego Iddio che lo conservi nella sua gloria, dato che il Vangelo lo definisce "beato"1. Mia madre, da vedova qual era, non ebbe nemmeno il tempo di portare il lutto. Decise di vivere in bontà e onestà, perché buona e onesta lo era in animo e in spirito. Si diede da fare per mantenere me e mia sorella Benedetta, di appena due anni più piccola di me, facendoci da madre e da padre allo stesso tempo, senza profferir verbo, mettendosi a servizio di certi signori del quartiere di San Jacopo in Acquaviva, che si trova in questa città, dalla cui casa Circondariale mi permetto di inviarle questo memoriale e dalla quale. Per tutta la mia grama esistenza, non mi sono mai mosso. Conobbe un brav'uomo, un pescatore, vedovo anch'egli e padre di tre figli e lo sposò in seconde nozze dopo qualche tempo, più per farsi compagnia, come si diceva a quei tempi e come si direbbe ancor oggi, che per vero amore umano e carnale. Costui ci portava spesso del pesce a casa, cosa che io gradivo moltissimo, e gli volevo bene per questo. Che fossero triglie, o seppie, o muggini, o perfino, quando ce n'era, qualche cappone di scoglio o un battibatti di rinforzo, io mangiavo con gusto e dedizione tutto quel ben di Dio. Son sempre stato da bosco e da riviera, io, ma soprattutto da scoglio. E fu così che a forza di mangiare ora un polpo in guazzetto e ora una seppia rifatta in umido coi piselli, crebbi in robustezza e armonia, doti che corroborai con qualche bagno fuori stagione, di quelli in cui l'acqua è ancora fredda e che lasciano al nuotatore quel senso di pizzicore sulla pelle che se ne va solo dopo che si è sdraiato a riposare una mezz'ora su una roccia di Calafuria, mentre il respiro riprende il suo ritmo naturale, cadenzato, e l'invasione annuale dei bagnanti che vengon di fuori è ancora di là da venire. Benedetta, mia sorella, aveva sempre, al contrario, un'aria pallida e contrariata insieme. Studiava di malagrazia e a scuola era sovente cheta e buttata in un angolo. Non che non le interessassero gli studi in sé, ma si mostrava pigra e indolente. "Ma cos'hai, Nini, che sei sempre bianca come un cencio? Ma mangi?" le chiedevano. "Un lo so cosa ciò. Sto bene così, o cosa volete da me?" replicava di rimbalzo. Si fece venire addirittura un dottore di fuori, pagandolo una fortuna che nemmeno avevamo. Ricordo che mia madre dovette mettergli per iscritto qualche pagherò, ma la Benedetta non ne voleva sapere di nulla e di nessuno, tanto meno di guarire. Cresceva, questo sì, ma la sua apatia e la sua magrezza l'accompagnavano di pari passo. Si pensò, da principio, di darle una cura di punture di ricostituente, di quelle che fanno "tanto bòno", come diceva il mio patrigno acquistatp, ma il dottore diagnosticò, per contro, un male più oscuro, un mal sottile, su cui nemmeno lui poteva, in verità, far molto. "È triste e pallida? Riderà quando andrà in isposa. Intanto fatele prendere un po' d'aria bòna, vedrete che si ripiglia e poi mi rammentate." Di fisico non si ripigliò mai. Ma accennava qualche malcelato sorriso ogni volta che Sandrino il Nelli, il figliolo del tortaio2, veniva, con la scusa di cercare uno scorfano sciupato o qualche pesce da zuppa, a casa nostra. Il Nelli non lo potevo soffrire. Mi sembrava che avesse sempre qualcosa da nascondere, con quel risolino da ebete, sempre sospeso tra l'inganno e la verità di una intelligenza che, se c'era, era quanto meno ben rimpiattata. Sembrava covasse un rancore mai sopito, anche se non mi fu mai chiaro del tutto nei confronti di chi o di che cosa. Ma Benedetta gli voleva bene, certo, a modo suo. Lo chiamava affettuosamente "lo Strullo", perché pareva non accorgersi degli ammiccamenti che ella pur gli mandava col suo corpo sottile, quando si levava dalla sèggiola per andargli a prendere un bicchierino di rum di contrabbando che gli versava in un bicchierino sùdicio e rimediato alla meglio tra i pochi che avevamo in casa. "Sa di vecchio", osservava il Nelli. "Eh, per senza nulla cosa volevi, un giovanottino di primo pelo?", gli ribatteva mia sorella. E fu così che, perdurando le bevute e le visite in casa, mia sorella andò in isposa di quel tànghero e, dopo quattro mesi, aspettava di già il suo primo figliòlo. Lo sentiva che era un maschio, e per questo, quando ragionava del frutto del rancore che portava in grembo, lo chiamava Charlie. "Sicché quel pezzo di merda t'ha messo incinta, via...", ebbi a dirle una volta che venne a farci visita. "Dé3, o cosa pretendevi che facesse, che mi raccontasse la novella4 di Buchettino5?" "O perché il bimbo lo chiami Charlie?" "Perché mi sa di guerra. E poi fatti i cazzi tùa!" Col proseguire della gravidanza, mia sorella prese a deformarsi. Quel corpo esile, magro e minuto si tramutò in un gonfiore che non garbava punto a nessuno. Nemmeno alla Armida, la vicina, che di figliuoli non ne aveva mai avuti. "O bimba, guarda lì che pancia ti ritrovi! Fra pochino il bimbo lo pigliano militare!" "E se no lo mando a piantà' le zizzole6..." "E fai bene, è già un torello!" "Poverino, un è ancora nato e cià già du' palle da competizione e du' corna sul capo. Ora dimmi te!" I mesi successivi Benedetta li passò a contemplare la sua deformità e a dir poco o nulla. "Guarda lì, paio una botte!" "Meno male, almeno si beve!", azzardò il Nelli. "Bevi dell'altro, deficiente, mi raccomando!" Ed arrivarono per lei i giorni del parto. Era sempre più apatica, distaccata e sarcastica. Il suo ventre pareva impartire il ritmo al levarsi e abbassarsi del lenzuolo che la copriva nel letto in cui era costretta da più di una settimana. Piedi e gambe le si erano gonfiati a dismisura, ma quell'esoso del Nelli sembra non darsene nemmen per inteso. A chiunque gli chiedesse come stesse sua moglie, andava rispondendo sempre la solita sinfonia: "Bene, bene... o come volete che stia... son donne e ci vuol pazienza." E fu proprio l'Armida a venirmi a cercare una sera di dicembre, proprio di questi tempi in cui Le scrivo, per dirmi che la Benedetta avevano dovuto portarla all'ospedale e che il Nelli non si trovava in giro. "Sarà all'osteria, come al solito. Del resto, Armida, è più facile quello che morì' santi", aggiunsi. "Gesù ci liberi tutti, tutti...", chiosò lei. Raggiunsi gli Spedali Riuniti trafelato e col cuore che pareva volersene uscire dal petto. Un senso di rabbia e di furia mi pervase per la prima volta. Non ne ebbi paura. Ma non ne comprendevo la causa, né dove dovesse andare a sfociare quel fiume carico di detriti che si gonfiava a dismisura e pareva uscirsene dagli argini malandati che gli avevano costruito gli umani. La mia consapevolezza di quei sensi era, tuttavia, così netta e trasparente, come se me la porgesse una coppa di cristallo. Capii molto bene e prima di subito che non se ne sarebbe mai più andata. Avevan cercato e continuavano a cercare il Nelli. Ma non si trovava. Pareva svanito come una tromba d'aria verso lo scoglio della Meloria. Cercai di individuare la camerata in cui si trovasse mia sorella. Nessuno pareva sapesse darmene notizia. Poi fu un infermiere che, vedendomi in quello stato di agitazione consapevole e mai provata insieme, ebbe a dirmi che l'avevan trasportata in osservazione, perché la cosa si era fatta più complicata di quello che mi figuravo. E fu così che lì attesi. Cinque ore in cui l'unico che si mosse a compassione fu un signore che mi offrì mezzo del suo sigaro. Non avevo mai fumato prima di allora, e quello che avevo sempre avvertito come un odore acre e persistente sembrava quasi che mi schiudesse i polmoni e mi agevolasse il respiro affannoso che mi entrava fin nei bronchi. Finché uscì un'infermiera che, con viso tirato, si precipitò a far bollire quello che mi parve un paiolo d'acqua, nonché una siringa di vetro, per poi correre di nuovo al capezzale della paziente. Poi, ancora mezz'ora senza saper più nulla. Il medico varcò la porta del salone d'attesa con uno sguardo che intesi subito come di superiorità e di sfida. Non avrà avuto più di una trentacinquina d'anni, ma parlava con una boria e un'alterigia che aumentarono, se fosse stato possibile, lo stato dell'ira che sentivo traboccarmi nel cervello. Egli aveva il camice ancora macchiato di sangue, e portava due occhialini tondi e fissati dietro alle orecchie da due stanghettine ricurve e a molla dorate ma consunte. "Abbiamo cercato di contenere la posizione podalica e già gravemente compromessa del feto, anche con l'utilizzo del forcipe7. L'operazione ha causato una pur prevedibile depressurizzazione del liquido amniotico, causata dall'evento emorragico e dall'esiguità dello spazio di contenimento del canale vaginale, con conseguente asfissia. Il feto presentava una conformazione abnorme del cranio ed è risultato, con tutta evidenza, idrocefalo. La sopravvivenza, in questi casi, si può stimare tra le poche settimane e i sei mesi al massimo. Ad ogni buon conto, il feto è nato morto. Può vedere la paziente, ma non più di un minuto." "Oh, sei qui?" La voce di Benedetta era flebile e sembrava arrivare da una radio mal sintonizzata. "Come ti senti?" "Mi sembra che m'abbiano infilato un quintale di ricci nella pancia. E poi più giù. Mi tieni la mano, Tatino?" Non mi chiamava più così da quando si giocava coi figlioli del Cacini, che era venuto a stare a Livorno da tre mesi, davanti a casa loro. E lei mi diceva: "Tatino, un ciò voglia di camminare. Mi ci riporti a casa in bicicletta?" "E dove l'ho la bicicletta?" "Allora stai zitto e pedala!" Seguì un silenzio che si prolungò per alcuni secondi che si dilatarono assieme alle mie pupille insanguinate di pianto e dell'ira funesta che tutti ci pervade, eroi o delinquenti che siamo. "Almeno se era nato vivo. Lo avrei lasciato al mondo come fa Livorno coi su' figlioli. Hai presente Modigliani? O Tatino, o come faceva quella poesia che c'insegnò la Maestra Arquati da piccini? Dài, me la dici?..." Mormorai: Anima mia, fa' in fretta. Ti presto la bicicletta, ma corri- E con la gente (ti prego, sii prudente) non ti fermare a parlare smettendo di pedalare. Arriverai a Livorno, vedrai, prima di giorno...8 La vidi chiudere gli occhi, come se dormisse. Ma riprese: "Noi la bicicletta un ci s'è mai avuta!" Le baciai la fronte che scottava del suo dolore e uscii. Il Nelli dov'era? Dov'era quell'infame mentre sua moglie si dissanguava e si massacrava le viscere di dolore per dare alla luce suo figlio, che luce non avrebbe mai visto? Lo cercai per più di due ore, prima al "circolino", come lo chiamava lui, dove era solito frequentare un gruppo di anarchici perdigiorno e vagabondi come lui. Poi mi avviai verso la Stazione e, preso che fui da un'intuizione che mi apparve come una folgore in mezzo alla tempesta, all'osteria di via Del Vigna. E lì lo trovai. Ubriaco che non si reggeva ritto, gonfio di vino e di risa sguaiate e volgari che compartiva con una donna parecchio più anziana, e che aveva la voce arrochita dal tanto fumare le Nazionali Esportazione che qualche avventore le regalava in cambio di qualche lavoretto, di quelli che pareva sapesse fare solo lei. "Dov'eri, nato d’un cane? T'ho cercato mezza giornata per tutta la città..." "Dé, o dove volevi che fossi? Qui, con la Lola! Lo vuoi un poncino9?" "Guarda, Nelli, che stasera con me hai trovato una mattinata che non ti passa più..." "Come quella di Leoncavallo?" E giù, di nuovo, risate scomposte e fuori luogo. La Lola sembrava una vecchia incartapecorita e lui, il Nelli, più che quella rideva e più faceva il gesto di versarsi da bere, risultando ridicolo nel suo non rendersi affatto conto che il fiasco si era ormai svuotato e che c'era poco da mungergli il collo. "Il tu' figliolo è nato morto. Hai capito, Nelli? Morto." La Lola smise di ridere di colpo e quell'infame del Nelli si fissò con gli occhi sul bicchiere ancora tinto del rosso delle Cantine Sociali in cui si era affogato. Il suo silenzio era più di uno schiaffo che echeggiava dal Cisternone al Quartiere San Marco. "Attento, Nelli, che ti marco stretto. Falla fuori dal vaso e t'ammazzo come un polpo rivoltato e sbattuto sugli scogli." Avevo di nuovo bisogno di respirare. Il sole tramontava in fretta, di là dal porto, e io sentivo nelle nari l'odore misto di salmastro e nafta che lo caratterizza. Tornai all'ospedale che già l'oscurità lasciava piovere l'umido della sera e il buio veniva solcato solo dai lampioni che la rischiaravano coi loro aloni di lume. Il silenzio, il bicchiere sporco di vino sofisticato10, il forcipe. Lo attesi per un tempo che non seppi nemmeno calcolare. Venti minuti, mezz'ora. O forse qualcosa di più. Il respiro mi si condensava e il freddo si era fatto tagliente come uno di quei coltelli che servono per ridurre i totani in rondelle. Lo vidi uscire dal portone principale. Pareva tranquillo. Mi avvicinai e si rivolse verso di me fissandomi, per non più d'un batter di ciglia, con quegli occhi sormontati dagli occhiali tondi che gli si erano posti di tralice. "Buonasera..." credetti di udire. Mi feci più da presso a lui, cercando di lasciarmi riconoscere, proprio nel momento in cui un refolo di vento aveva spazzato via la nebbia in piccoli banchi che striava la visuale. Fu allora che lo presi. Non sembrò neanche sorpreso e per un frammento di tempo, di quel tempo che avvertii come eterno, ebbi come la sensazione che mi stesse aspettando. "Ora te lo do io il forcipe, assassino!" Gli sussurrai questa frase all'orecchio e subito glielo morsi affondando i denti nella sua cartilagine senza mollarla finché non ebbi in bocca chiaro il sentore del suo sangue avvelenato di prosopopea scevra da qualsiasi umanità che immediatamente sputai per il disgusto. Lo tenevo saldamente per il collo e mi fu fin troppo facile farlo inginocchiare come a chiedere pietà, cosa che non fece. Mi arrivò di colpo alle narici l'odore acre delle sue urine che sapeva di paura e lo stesi, mezzo rintontito, con una pedata che lo centrò in piena bocca facendogli fuoriuscire un altro fiotto di sangue imputridito che andò a stamparsi sul selciato e lì rimase. Poi mi concentrai con le ginocchia contro il suo petto e premetti fino a sentire lo schicchiolio sinistro delle sue costole che si frantumavano sotto il mio peso. "Oh, mammina..." fece in tempo a dire, con gli occhi già mezzi vitrei e fuori dalle orbite. Subito dopo il sangue dovette cominciare a fuoriuscirgli dai polmoni o da chissà dove, perché lo sentivo gorgoliare in un gargarismo mortifero prima, in un rantolo dopo e, infine, nell'ultimo sibilo del suo lurido respiro. Puzzava ancora. Restai così su di lui ancora un minuto almeno. Egli non era più. Mi accovacciai accanto a lui, muto. Le grida della gente che mano a mano accorreva su quel piazzale polveroso mi giungevano ovattate e distanti. Di certo qualche donna doveva avere urlato di spavento, alla vista di quell'ammasso di vermi da sepolcro così ridotto, ma io non la udii. Vennero a prendermi di lì a poco. UN POCO MODERATO Il processo che seguì quella prima azione criminosa di tutta la mia disgraziata vita, Reverendo Padre, non fu altro che una misera e tetra rappresentazione teatrale, come lo sono tutte le azioni di giudizio che portano all'unico, inevitabile finale annunciato: la condanna. Accade, tuttavia, e non raramente, che gli attori di quelle tragicommedie di provincia, stanchi e annoiati dal ripetere ogni volta le stesse battute, eseguano il loro copione con scarsa, anzi, scarsissima abilità artistica, limitandosi a pronunziare, trascinandole nell'eco di una stanza di Tribunale, poche frasi di circostanza. Il Pubblico Accusatore non fu particolarmente acre, con questo Suo servitore che Le scrive. Non mi guardava mai in volto e pareva limitarsi solo a leggere ad alta voce delle domande che si era segnato su un foglio di carta, più per trovar conferme a ciò che rappresentava una conferma col suo solo esistere, che per conoscere maggiori e più subdoli particolari sul mio orrendo misfatto. Risposi, comunque, a ciò che andava chiedendomi, e confessai e non negai. A tratti pareva essere egli stesso in evidente difficoltà emotiva, nell'interrogarmi e nello scandagliare i moti del mio animo rispetto a quella circostanza dolorosa, situazione incresciosa da cui io stesso, per il sol fatto di essere buono, cercai invano di distrarlo. Il mio difensore d'ufficio era un tale coi baffetti ingrigiti e una gran maculatura giallastra su una tempia. Fece il possibile, non risparmiandosi nessuna delle battute che gli erano state attribuite nella recita di quel palinsenso. Parlò di circostanze attenuanti speciali e generiche, della mia incensuratezza, dote virginale che non avrei certo conservato nel tempo, della provocazione che avevo ricevuto da quel povero disgraziato di un medico e dello stato d'ira che mi obnubilava la mente, almeno a suo dire. Fece il suo lavoro, ma nulla di più. Il finale era, dunque, più che scontato. Il giudice emise la sentenza, a cui non interposi nessun appello, gettandomi addosso la croce e costringendomi, in nome del popolo italiano, a portarla per quattordici anni, da scontare in questo carcere della mia città, indifferente alle mie vicende, che ho sempre tanto amato e che non ho mai abbandonato nel corso della mia rovinosa vita, già maledetta da Dio, e in quel momento anche dagli uomini. Trascorsi dunque tre anni in questa prigione da cui ancor oggi mi rivolgo a lei, scrivendole, durante i quali mi feci intimo di alcuni compagni di detenzione, primo fra tutti il Poletti, a cui volevo un gran bene. Era stato condannato all'ergastolo per un fatto di cui non volle parlarmi nei dettagli, limitandosi a farvi cenno con gesti ed espressioni sempre più neutri e non capii mai se fosse perché quel passato non gli appartenesse più o perché gli fosse diventato, all'improvviso, insopportabilmente greve. Non sapeva scrivere, il Poletti, così, quando doveva mandare delle missive a casa, io mi offrivo sempre volentieri di vergarle per lui, su quella carta a righine bianche e rosa che i secondini ci passavano, e che non s'aveva a sciupare, nossignori. I pasti non erano gran cosa, e questo può perfino risultare comprensibile a una persona di normale intelletto. Tuttavia io mangiavo ogni cosa, se non con il necessario appetito, almeno con una ordinaria diligenza, che mi permise di sopravvivere. E dopo il periodo dell'isolamento, che trascorsi a parlare con la mia anima bruciante d'inferno e di rimorsi, nonché coi muri diacci e umidi di una cella grigiastra, che aveva come contrasto solo il biancore della ceramica dei piedoni del servizio igienico in cui potevo depositare i miei bisogni corporali, chè di luce non ve n'entrava punta davvero, mi misero a lavorare nella biblioteca dell'istituto di pena, circostanza che mi sollevò non poco e che mi permise persino di guadagnare qualche quattrino da mandare a casa, visto che non mancavo di nulla, e che quelle poche dosi di tabacco che fumavo, di tanto in tanto, me le passava il Poletti, che ne comprava per sé. Di libri, invero, non è che ne avessi visti e aperti molti, in gioventù. A casa c'erano solo tre volumi, che io ricordi. Un manuale di cucina di un tal Pellegrino Artusi, con cui, pure, mi trastullavo da piccino perché quello sconosciuto raccontava delle ricette semplici e del come dovevano farsi con tale grazia e arguzia da divertir chiunque, una edizione senza copertina del "Cacasenno" del Banchieri, giunta lì non si sa come, e un libro dalla copertina verde cartonata, che raccontava le storie strampalate di un ragazzetto simpatico che veniva nominato "Gian Burrasca", per via della sua innegabile indole a combinar malestri. I libri che vi si potevano leggere, in quel luogo di pietà umana e cristiana, erano assai pochi. Spiccavano, per bellezza di copertine, delle edizioni di romanzi condensati, pubblicati da un editore americano che doveva aver a cuore il fatto che i suoi acquirenti non facessero tanta fatica nel comprendere i passi astrusi e meno abbordabili di qui contenuti americani a loro volta. Storie impossibili d'amore e gelosia, nella maggior parte dei casi, qualche racconto di mistero e di polizia, in quelli meno frequenti. Oltre ad esser di scarso pregio, le dotazioni libresche di quel sacrario di anime in pena erano costituite per lo più, da edizioni di scarsa qualità e ormai consunte e ingiallite dal tempo e dall'umido, con le pagine appiccicaticce della saliva che umettava i polpastrelli per voltarle, per tacere di altri liquidi umorali di cui si aveva notizia sol di notte, quando nessuno dorme, e i fantasmi del corpo si aggrovigliavano nel bisogno sottaciuto di qualche anima offensa11. Spesso veniva a trovarmi, in visita, Benedetta. Portava con sé, non so se per malcelato imbarazzo o per ritrovato spirito, la squillante bellezza della sua gioventù, che pareva non volesse né sfiorire né trascolorare, a dispetto di quel che le era capitato per via di quel laido del Nelli. "Ciai qualcheduno?", mi capitava di chiederle. "Qualcheduno, sì...", e sospendeva il discorso guardando su per aria, come a cercar sul soffitto la conferma alle sue affermazioni che si facevano via via più rade e pungenti. "Mi voglion, bene, certo, tutti. A modo suo. Il notaio per Natale m'ha perfino regalato tre paia di calze per l'inverno e ci ha portato il panettone perché se ne potesse mangiare tutti. È buffo il panettone, sai? Sembra la topa12 che si pigliava dal fornaio per merenda, quando ci si ritrovava due lire in tasca! Te lo ricordi com'era buona? E ti lasciava lo zucchero sulle labbra e te ti leccavi in continuazione... Anche Don Saverio, il prete, è stato gentile. Per una sminciatina di puppe13 mi dà sempre più di quel che chiedo e con quei soldi lì, insieme a quelli che ci mandi te, insomma, si campa! Ti manca nulla a te?" "No, nulla..." "Nulla è men di poco! O dell'amnistia e dell'indulto si sa qualcosa? Ormai è quistione di poco tempo..." "Mah..." "Boia, ma chi te li scrive i discorsi a te? Oggi cos'hai fatto, hai mangiato le paroline14?" E fu così che con il proseguire delle visite di Benedetta, e delle conversazioni che ne seguivano, finì che l'amnistia e l'indulto li concessero davvero. Tranne che per il povero Poletti, per il quale nessun provvedimento di clemenza sortì un qualsivoglia effetto, datosi che ergastolano era e ergastolano rimase fino alla fine dei giorni che gli toccarono in sorte, e durante i quali dovette camminare a passi malfermi sulla luce che li illuminava, ora accecante, ora fioca come la fiamma di una candela di sego. I più contenti per l'amnistia erano di certo i "politici15", gente che doveva scontare qualche anno non perché avesse fatto chissà che di male a qualcuno, ma perché aveva detto quel che non si poteva dire, e, mi creda, Reverendo, non so proprio rapprenentagliene i come e il perché, ma da allora non mi son mai spiegato come financo le parole possano costituire un crimine. Il mio avvocato d'ufficio era tornato a trovarmi per via dei calcoli che c'eran da fare per via della buona condotta, degli anni indultati e della cancellazione del residuo di pena che ancora avevo da scontare. Si era fatto vecchio tutto d'un picchio, le guance gli cascavano giù, penzoloni, e lo sguardo non rifletteva nemmeno per poco quell'abilità oratoria nel dibattito forense che, indubbiamente, aveva e che tutti gli riconoscevano. In galera si diceva che avesse un malaccio16 e che ormai gli restasse ben poco da campare. Come fu, come non fu, i calcoli tornavano come se li avesse fatti col pallottoliere, e quando lo vidi per l'ultima volta, mi disse che sarei uscito di lì a una settimana. Ne fui felice, sì, e questo non potei negarlo. Ma mi ero abituato a scandire le giornate con lo scorrere del tempo della privazione della libertà. Un professore comunista, di quelli dei "politici", mi raccontò una sera, prima che le luci si spegnessero sull'abisso della notte, che c'era un filosofo che si era occupato del tempo interno e del tempo esterno. Che ventiquattr'ore eran le stesse per tutti, questo era certo, ma che dipendeva come uno li viveva. Bergson, mi pare si chiamasse quel filosofo. E io il tempo che cadeva su tutti noi come uno stillicidio, lo avevo incominciato a vivere con rassegnazione, facendo di quel patrimonio di lentezza che m'era stato dato in sorte, un bene prezioso. Non mi restava quasi altro, nella mia cella, a parte un paio di lenzuola ruvide da cambiare una volta alla settimana. Il Direttore del carcere non era cattivo, poveròmo, un tipo basso di statura, calvo e sudaticcio che amava più le carte bollate che occuparsi della sorte dei suoi detenuti. Pochi giorni prima della mia scarcerazione mi disse due parole di circostanza accozzando convenevoli che non bastavano a riempire l'aria greve di quel luogo: "Mi raccomando, Verticelli, schiena dritta e guardare avanti, il peggio è per noi che qui ci troviamo e qui dobbiamo restare." Pensai che v'eran molti che avrebbero fatto a cambio tra la loro condizione e la sua, costretta, si fa per dire, a tradursi nell'apposizione di qualche "nulla osta" se qualcheduno gli chiedeva per iscritto di potersi comprare un po' di cioccolata o un pacco di zucchero. Lo pensai ma non glielo dissi. In parlatorio mi aspettava la Benedetta. S'era messa uno scialletto rosso con la trina, che le illuminava il viso, a dispetto del freddo che le illividiva le mani, raccolte come in una circospetta preghiera e appoggiate sul grembo. "Sicché ti fanno uscire, via, sei contento? Noi sì, tutti. Non ti preoccupare di nulla, per i primi tempi ci s'arrangia. È venuta a stare con noi anche l'Annina, te la ricordi? Sì, la figliola del Bientinesii. Ora fa la maestra ai bimbi delle scuole. T'aspetta tanto anche lei..." Dell'Annina, a dire il vero, ricordavo assai poco. Solo che da ragazzetta -avrà avuto sette o ott'anni- amava sgambare su una biciclettina mezza rotta che il Nenciati le aveva comprato perché, diceva; "Gli è un demonio. Non c'è versi di farla star ferma!" Ma del perché ella m'aspettasse a casa non riuscivo a capacitarmi. O forse me ne capacitavo anche troppo bene. Era sempre stata brava, l'Annina del Nenciati, tanto a scuola come a casa. Qualche volta, sempre da bimbetti, s'andava al mare a far favolli, e lei metteva sempre nel cestino della bicicletta, che conduceva a mano, perché io non ce l'avevo, una bottiglia di limonata che aveva fatto insieme a sua madre, e mentre si bagnava i piedi alla ricerca di un crostaceo da mettere nel cacciucco, me ne offriva quanti sorsi io ne volessi. "Lo senti? È sempre bella fresca. Ti piace?" E il giorno in cui, salutate le mie guardie più per dovere di occasione che per moto spontaneo del mio animo, varcai il portone del carcere per tornare in quel "fuori" di cui tutti parlavano, l'Annina era lì ad aspettarmi davvero. "O Annina, o te?" "Eh... son qui. Non te l'aspettavi, eh? Volevi che ti mandassi la limonata?" Era bella così, anche rincantucciata nella sua ritrosia di avvicinarsi a me, appoggiata al manubrio della bicicletta, col golfino di lana ripiegato ordinatamente nel cestino di vimini intrecciati alla meglio. Portava un vestitino nero un po' aderente, di quelli che, mi dissi, li fabbricano solo per le maestrine graziose e col corpo che pare voler scoppiare e imporsi in quell'andirivieni di lapis rossi e bleu. "Ma la tu' mamma? I tuoi?..." "La mi' povera mamma è morta che saranno due anni, ormai, il mi' babbo s'è accompagnato17 dopo poco e ora sta per conto suo. Si fa per dire, in casa di quella poco di buono, intendo." Lasciò scorrere la pausa di un respiro poi riprese: "A me di stare da sola, lo sai, non m'è mai punto garbato. Sicché la Benedetta mi ha detto che se mi pareva potevo stare da voi per un po'. Qualche soldo glielo passo, ma mi dispiace che non la posso aiutare nelle faccende, con tutto il daffare della scuola. Lei mi lascia sempre qualcosa da mangiare e a me mi fa comodo, lo sai, m'accontento di poco..." "Eh, lo so, se sei venuta ad aspettarmi fuor di galera t'accontenti di poco sì!" "O scemo, costì, se l'ho fatto un motivo ci sarà, te cosa dici? T'ho sempre voluto bene e te ne voglio, ma te..." "E io? Nulla?" "Macché, nulla!" "La gioventù fa questi e altri scherzi, Annina. Pare eterna, e poi, invece, la vecchiaia te la ritrovi lì." "E il budello18 della Sitrì19!" "E di su' madre viva e morta nel casino." Esplodemmo in una risata. Di quelle risate, Reverendo, che rimbombano dei sapori dell'infanzia, degli odori dei Fossi di Livorno, dei primi e tiepidi amori primaverili, mentre si stava sdraiati sui prati della Fortezza Nuova ad aspettare di darci un bacio e si restava contenti per una settimana. E fu in quel ridere che mi venne in mente, come in un balenar di temporale, che sì, in fondo anch'io all'Annina avevo sempre voluto bene. A lei, alle sue biciclette, alle sue ginocchia sbucciate quando cadeva per terra nell'impeto di dare una pedalata più energica. "Magari ci si sposa, che dici?" "Che te certe cose le capisci subito al volo, citrullone!" "E poi? Se vengon dei figliòli?" "Dé, si tengono. O cosa vuoi fare, buttarli via?" "Ah, no di certo. Tutt'al più se il primo è un maschio lo porterò a far favolli e a giocare a pallone!" "Perché, se è femmina cosa fai, la fai studiare dalle Orsoline?" Le cinsi le spalle col braccio e ci avviammo a piedi. Tutto mi pareva perfetto. Tutto aveva un ordine, un senso. Le sue spalle fragili, la sua bicicletta, il freddo che avevo patito in galera, i discorsi dolorosi e pungenti di Benedetta, l'umidità che cominciava a scendere. "E se s'ammalano?" "I figliòli son come i frìgnoli20, ti s'attaccano al culo e prima di guarire fai in tempo a morire per conto tuo." "I bimbi son delicati. Basta un colpo di fresco, una bronchite, una tosse canina..." "O un malinverno traditore." Feci finta di non averla nemmen sentita. LARGO CON CALMA. MOVIMENTATO ASSAI. Io e l'Annina ci si sposò ad aprile, sotto una pioggerellina fitta fitta come una sassaiola di ghiaiòttoli che ci rese, se possibile, ancor più allegri e felici. All'Annina avevo detto di arrivare puntuale al Santuario di Montenero, perché se avesse tardato, come fanno le ragazze che vanno in ispose, ne avrei avuto certamente preoccupazione e malumore. "Non mi mettere furia, mi sposo una volta sola nella vita e voglio vestirmi bene." E bene si vestì, Reverendo Padre, non dubiti. Splendeva di gioventù nel suo vestito appena appena scollato che portava con singolare ma straordinaria disinvoltura. Ostentava una sicurezza nei movimenti che mi lasciò attonito, come se non avesse fatto altro che sposarsi in tutta la sua vita. Portava in mano un mazzo di fiori di campo che depose sotto l'immagine venerata della Vergine protettrice. Quanto più l'Annina mostrava sicurezza, tanto più io mi sentivo impacciato, impacchettato com'ero nel vestito che mi aveva prestato ora non ricordo chi. Ero rigido, rappreso. Mi muovevo a fatica e cercavo di restare il più possibile fermo per non mostrare disagio o imbarazzo. Officiò la cerimonia un frate francescano anziano, che dal pulpito dei suoi novant'anni biascicava il Vangelo come risucchiasse una minestrina di magro, ma l'Annina non vi fece bada. All'ingresso qualcuno aveva già improvvisato una strofa sul motivo della Marcia Nuziale, invitando gli sposi a non compiere quel passo per evitare possibili tradimenti ed essere indicati a dito dalla gente. L'Annina pronunciò il suo sì con voce chiara e sicura. Io, invece, la voce dovetti schiarirmela un paio di volte o tre. Baciai l'anello prima di infilarglielo al dito. Mi sentivo grato a lei e al mondo intero per avermi preso come marito e avermi atteso tanto e per la prima volta mi sentii in pace. L'Annina mi aveva redento. Di quella redenzione umana gratuita e a perdere, senza chiedermi nulla indietro. S'andò a desinare dalla nonna Lina21, in pace, mentre fuori continuava a piovere. Ma di quella pioggia dolce, costante, che non si ferma mai, e che intride i vestimenti di un umidore che a malfatica si avverte. "Ti sei bagnato? Non ti preoccupare. Questa è acqua scema!" L'Annina parlava, e ogni espressione che proveniva dalle sue labbra rigonfie e carnose, pareva portarmi un senso di sicurezza e di gratitudine verso quella donna che non aveva fatto altro che aspettarmi con pazienza e tenacia per tutta la sua vita, e senza mai darmelo ad intendere. E le baciai, quelle labbra, la sera, quando ci ritirammo. Non era nemmen stanca di tutte quelle grida di "Viva gli sposi!", di tutte quelle parolacce grevi e volgari che, pure, a Livorno non mancano neanche negli sposalizi. Sì, Reverendo Padre, le baciai come avessi posato la bocca incerta su una sacra immagine. Perché non v'era altro in lei che l'aura di sacralità impressa dal rito del matrimonio. E mi resi conto, allora stesso, che nessuno mai avrebbe turbato quella pace che era in lei, che era in me, pura, sconosciuta, rotta a tratti solo dallo squillare argentino della sua allegra consapevolezza di essere sposa. Pace ne ebbi anch'io, e in abbondanza. Presi a lavorare presso un negozio gestito da una coppia di coniugi anziani, e che vendeva granaglie, legumi secchi e cereali al dettaglio. L'Amelia -così si chiamava la proprietaria- aveva passato più di metà della sua vita a incartar fagioli, lenticchie, orzo e riso nel foglio giallo che andava bene per qualsivoglia sorta di cibo si volesse comprare, dal pesce alla carne. E siccome di carne se ne vedeva assai poca, l'Amelia sopperiva ai bisogni alimentari della clientela piegando e ripiegando con abilità quegli involti destinati a chi aveva da badare più al borsello che al portare il necessario mangiare in casa. "Ecco, signora, mezzo chilo di ceci, di quelli nostrani... vedrà che oggi mangia bene!" Suo marito Agenore, invece, vedeva e rivedeva i conti che non gli tornavano mai. Bagnava con la saliva la punta del lapis copiativo, pigliava un foglio di quelli da incarto e lo riempiva di numeri che segnava come volesse interrogarli uno per uno, e la cui somma, vuoi per imperizia, vuoi per i clienti sempre meno disposti a spendere, non gli tornava mai. Si riponeva la matita dietro all'orecchio, ripassava le palme delle mani sul grembiale e suggellava i suoi calcoli mormorando: "Anche stasera si fa il giro del tavolino!22" Io trasportavo i sacchi pieni di tutto quel ben di Dio. A volte Agenore non aveva di che pagarmi, e allora mi permetteva di portarmene un po' a casa, dove l'Annina mi aspettava con gli occhi lustri dalla contentezza. "Fagioli borlotti... bòni! Stasera ci si fa la minestra coi paternostri23... vammi a prendere un po' d'aglio, una pementa24 e un rametto di ramerino25, vai, che si sgrofogna26!" I mesi passarono, senza che me ne accorgessi, in quel delicato equilibrio che mi aveva fatto passar di mente perfino l'onta che mi avrebbe accompagnato per l'esistenza intier, quella di aver ammazzato un uomo. Spesso io e l'Annina si ragionava del far figliuoli, e del fatto che ormai era ora che ci si desse da fare. "Allora, citrullone, lo vorresti un maschio?" "E lo vorrei sì!" "Ecco, lo vedi che sei citrullo? Femmine, ci vogliono. Son più intelligenti. E poi una mano in casa mi ci vuole davvero." "O perché, i maschi cos'hanno, son stupidi?" "No, ma se cresce come su' padre si sta lustri!27" Tutta la gente del rione diceva che l'Annina se la gallina non le faceva due uova al giorno non la teneva in casa. Ed era vero, a volte, ma io mi sentivo pervadere e riempir di pace, e ben volentieri soprassedevo alle sue fisime di brava massaia attenta all'economia domestica. Il destino, tuttavia, Reverendo Padre, non guarda alle vicende degli umani. Semplicemente pare compiacersi di variarle, come fossero statuette di cera. Di lì a poco l'Annina si mostrò via via sempre più taciturna. Si rinchiuse in un mutismo che non lasciava presagire nulla di buono, se non la catastrofe che di lì a poco si sarebbe abbattuta sulla nostra vita di sposi e nella mia, quella del Suo umile servitore che le indirizza queste memorie. "T'ho da dire." "O che sarà mai?" "Mettiti a sedere." Mi sedetti che le gambe mi tremavano, e fu un bene che agguantassi per la spalliera una di quelle seggiole impagliate che avevamo in casa. "Aspetto un bimbo." Me lo disse con le gote solcate da due lacrime asciutte. Pareva le si fossero congelate sul viso, tanto erano rapprese in un grumo di amaro sale, lo stesso che ci viene spacciato il giorno del battesimo per viatico della sapienza. "Non sono sicura che sia tuo." Seguì un silenzio rotto solo dal suo respiro affannoso che dovette darle, se possibile, un certo sollievo, di quelli che arrivano a liberarci le braccia dopo che si è trasportato un peso eccessivo. Io mi sentii invadere il cervello da un fiotto di sangue. Mi premeva la testa, obnubilando qualsiasi altro pensiero e facendo del mio sentimento uno stallatico buono ormai per concimare i campi. Poi, repente, uno sbocco di lucidità. "Chi è stato, Annina... chi? Dimmelo, subito, o quant'è vero Iddio faccio uno sproposito!" "Quanti spropositi fai te! O che vuoi fare? Ammazzare anche lui. O non ti basta una vita che hai levato dal mondo? Ammazza me. Me, piuttosto, che son stata zitta tutto questo tempo a sentirmi marcire il ventre mentre ti lavavo le mutande..." Non parlammo più per ore. Di quelle ore che cercai di ingannare riportandomi alla ragione che non voleva saperne, al contrario, di ricondurmi a lei. C'era in casa del vino e ne bevvi mezzo fiasco. Ma non mi bastò. L'Annina continuava a tacere, stolida, testarda, immersa nel sigillo del suo segreto che mi assordava. La sera ci coricammo, come sempre. Ma non era come sempre. Quando si tolse la veste, lasciando semiscoperti quei seni che non avrei mai più toccato, mi guardò con occhi ch sembrava mi sfidassero, interrogativi, a una qualsivoglia reazione. Si aspettava che la picchiassi, che sfogassi su di lei la rabbia che mi aveva instillato nelle vene e che mi scorreva nel corpo, ormai priva di requie. “Il Nelli…” “Cosa?” "È stato il Nelli." "Il Nelli... ci sei andata a letto, allora..." "No. Sul pavimento. E anche sul tavolino di cucina." Mi rimisi alla svelta la camicia e i pantaloni e raggiunsi il mare. Di notte pareva mi fosse restato amico soltanto il suo continuo sciabordare. E quella schiuma biancastra che raggiunge la riva e che scompare, prima che il mare si ritragga a ritrovar se stesso. Non so dire se piansi o se mi limitai a imprecare la Divina Provvidenza, e non so nemmen dire quanto tempo restai a guardare la distesa d'acqua che bagna Livorno e le dà riposo. Ma so che vidi spuntare l'alba del giorno che mi avrebbe maledetto per sempre. STÜRMLICH Fu alla fine di quell'alba tormentata e definitiva, per l'anima mia e per quella del Nelli, che mi misi a cercarlo per ogni dove, senza averne traccia. Né i rossi di Livorno, né la figliola del Baluganti, che con lui se la intendeva, sapevano dove fosse rifugiato quell'uccisore della mia pace famigliare. Neanche la Lola seppe dirmi qualcosa, impestata com'era dai vapori di un cognac scadente e a buon mercato, ricurva sulle sue lussurie e sulla sua vecchiaia che le si era presentata anzitempo. Qualcuno al porto diceva che si fosse rifugiato in Isvizzera assieme a qualcuno dei politici anarchici amici suoi, altri si limitavano a esprimere una connivente biascicata di dubbio, come a dire che tutti lo sapevano bene dove si trovasse, ma che nessuno era disposto a spendere una parola in più sul sentiero per il quale egli andava destinato, la morte. O porto di Livorno traditore. A mezzogiorno, divorato dalla fame e dal rancore cieco, che morde l'anima ben più della dignità perduta, mi fermai a calmare l'appetito e con le ultime monete rimastemi, comprai due etti di torta di ceci, il cui bollor di forno mi rinfrancò le forze perdute da tanto camminare e la determinazione di farla finita con quell'assassino che aveva rovinato per sempre la mia serenità. Verso le due, passando dalle parti della Stazione, notai un ragazzotto sulla trentina che ragionava in modo concitato con un altro che mi voltava le spalle: "Scappa, per Dio, scappa... fra dieci minuti parte il treno per Firenze e da lì, con un po' di fortuna, puoi prendere quello per il confine... se tutto va bene stanotte sei fuori d'Italia, ma per l'amor del cielo scappa, che se no quello t'ammazza! O non l'hai visto cos'ha fatto a quel dottore? L'Annina gli ha detto tutto, di te e di lei. È sortito di casa e non si sa dove sia." "Ci vuole ben più di un miserabile cornuto per ammazzar me. Son più di un boccone, sai?" Fu in quel preciso istante che la mia rabbia si trasformò, come per incantesimo o malocchio, in una calma serafica e consapevole, scevra da ogni turbamento, ripensamento o rimorso. Il destino, Reverendo Padre, ha in serbo per noi reazioni emozionali che nessuno prevederebbe di avere in una circostanza siffatta. Le mani non mi tremavano, non più, e avevo in animo solo il desiderio, di più, il bisogno ineludibile di cancellare quell'infame dalla faccia della terra, chè era solo buona cosa e gran servizio a Dio e agli uomini. Feci un passo verso di lui. Le gambe erano ferme, salde, stabili. E per la prima volta, dopo la mia peregrinazione, mi stavano portando verso l'unica direzione possibile. Le seguii con convinzione ferma, la stessa che si ha quando si affronta tutto quello che è inevitabile. Lo sentivo bofonchiare qualcosa. La sua voce, -ah, le voci non tradiscono mai!- pur confondendosi con quella del suo interlocutore, pareva emergere dal brusio di sottofondo evidenziato dallo sferragliare candenzato dei filobus28 che dalla Stazione partivano per ramificarsi in quella che era la mia città e che lo sarebbe stata per sempre. "Ah, eccolo l'Armadino... alla grazia degli occhi che ti vedono! O cosa ci fai alla Stazione a quest'ora?" "Ti cercavo." "Me? O chi sei, te, il Commissario?" "No. La tua cattiva coscienza." Il giovanotto che era stato con lui fin quasi al termine della sua vita terrena, appena mi vide, si die' a correre via, lasciandomi solo con quell'omicida d'anime e di sentimenti. "Ora si fanno i conti io e te. Per l'Annina." "Ah, l'Annina... non crederai mica a quello che si dice in giro..." "No, io credo a lei. E al figliolo del peccato che porta in seno. E il peccato è il tuo, gran pezzo di merda!" "È una maestrina, cosa vuoi che capisca... è abituata a raccontar favolette ai fanciulli. Avrà preso per fanciullo anche te. Del resto, se l'hai sposata..." E aveva, di nuovo, quel fare strafottente e provocatorio che gli era solito. Teneva le braccia conserte in segno di sfida e non si muoveva di lì neanche di un centimetro. Mi venne in mente, come in uno schiantar di tuono, che era stata l'Annina stessa, quando eravamo felici, a spiegarmi che "provocare" voleva dire "chiamare a", ossia dare una risposta che ci viene imposta, più che richiesta. Noi camminiamo, chi per il sentiero spinoso del Calvario, chi per quello costellato e limpido del Paradiso, e qualcuno o qualcosa ci distrae, come se volesse dirci "Sono qui. Perché non mi guardi? Perché non smetti un momento di camminare per badare a me?" E pensai che la provocazione era il più grande crimine della storia degli umani, altro che il peccato originale! Fu così che mi parve naturale mettermi la mano in tasca e tastare, per aver conferma della sua confortante presenza, il coltello che portavo sempre con me. L'Annina, quando mi amava ancora, soleva chiosare: "Accidenti ai coltelli e al maledetto che l'ha inventati!" E dissi, in modo che capisse bene: "È finito Sandrino il Nelli. Te ne devi fare una ragione." Ebbe come un attimo di disorientamento. Chissà cosa gli venne in mente. Forse che non avrebbe visto il tramonto sul mare, e neanche qualcheduna delle sue innumerevoli puttane. Il manico del coltello mi sembrava caldo, pronto, pulsante. Lo estrassi e lo appoggiai contro le sue orribili pudende che non avrebbero mai più dato seme per generar figliuoli bastardi di cui impestare il genere umano con la sua criminale progenie. "O cosa fai..." Ma l'ultima parola gli si strozzò in gola, giacché la lama a scatto aveva già compiuto il suo dovere, penetrandolo completamente. La feci scorrere qualche centimetro più in alto, giusto per contemplare la reazione bambinesca del Nelli, la cui prepotenza aveva ceduto il passo a un volto più arrendevole e a uno sguardo che si spegneva via via dal dolore. Poi ritrassi il coltello per un solo momento per colpirlo di nuovo allo stomaco e veder sgorgare il suo sangue marcio che andava a innaffiare i prati delle aiuole della Stazione, mentre cadeva a terra, ormai esausto. E allora tornai a colpirlo, più e più volte. Alla gola, al collo, alla schiena, e poi di nuovo al ventre, finché la lama non si piegò contro il costato che riparava inutilmente il suo cuore nauseabondo. Fu una furia spietata, come spietata era stata la sua provocazione della mia vita, ma certosina e metodica come la mano di un chirurgo. O di un macellaio. Non mi accertai che avesse smesso di respirare. Presi con passo svelto la strada di casa e per la prima volta avvertii il freddo di quel malinverno traditore pungermi le membra stanche. Sentii distintamente il grido della raccoglitrice di stracci e ferri vecchi che chiamava perché qualcuno le desse qualcosa: "Eccola la cenciaia, donneeeeeeee..." Mi prese una rassegnata commozione al sentire il canto di quella città che avevo sempre amato, e che da gran budello29 che era, se ne infischiava di aver fatto godere chissà chi, in quale modo e soddisfacendo per denaro non si sa quale perversione, mentre abbandonava i suoi figli in giro per il mondo. Giunsi a casa che l'Annina mi aspettava, senza aver dismesso lo sguardo duro e coriaceo che indossava la notte avanti che la rendeva irriconoscibile ai miei occhi. "E ora cos'hai intenzione di fare?" "Respirare, Annina, respirare..." AD LIBITUM REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL GIUDICE Dott. VINICIO CECCHERINI ha letto e pronunciato mediante lettura del dispositivo la seguente SENTENZA nel processo penale contro VERTICELLI ARMANDO, già giudicato, presente, nato a Livorno il 12/01/1932, domiciliato presso la Casa Circondariale "Le Sughere", ut supra, difeso d'ufficio dall'Avv. Anchise Castiglioni IMPUTATO del delitto previsto e punito dall'art. 575 CP perché, con numerosi fendenti provocati da arma da taglio, causava la morte della persona offesa Nelli Alessandro, detto Sandrino, con le aggravanti contestate della premeditazione e dei motivi abbietti, sentiti il Pubblico Ministero Dott. Amilcare Costaglioli e il già citato Difensore d'ufficio. P.Q.M. visti gli artt. 442-533 e segg. cpc DICHIARA Verticelli Armando, così come in epigrafe identificato COLPEVOLE del reato a lui ascritto, con il riconoscimento delle aggravanti specificate e lo CONDANNA alla pena dell'ergastolo, oltre al pagamento delle spese processuali e di mantenimento in stato di detenzione. DICHIARA l'imputato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, ed in stato di interdizione legale per la durata della pena; ORDINA la pubblicazione della sentenza per estratto e per una sola volta sul quotidiano "Il Telegrafo" di Livorno. APPLICA la misura di sicurezza dell'isolamento diurno per la durata di anni cinque e dell'applicazione della libertà vigilata al termine dell'espiazione della pena, per un periodo non inferiore ad anni tre. CONDANNA altresì l'imputato alla liquidazione del danno in favore della coniuge Bientinesi Annina, da stabilirsi in separata sede civile. CONFERMA il sequestro preventivo e conservativo dell'arma del delitto, così come stabilito dal Giudice per le Indagini Preliminari30; FISSA per il deposito della sentenza il termine di giorni novanta. Livorno, 11/12/1956, Malinverno. Parole finali Il modello della composizione di questo romanzo è la narrativa picaresca spagnola del XVI secolo. In particolare l'immenso "Lazarillo de Tormes", che non ha ancora finito di dire tutto quello che ha da dire e ci parla ancora, incessantemente. Letteratura di poveri vagabondi, quando non addirittura di delinquenti o disgraziati. Spesso le tre cose coincidono. Del "Lazarillo" ho ripreso stile (la narrazione in prima persona, la descrizione delle umili origini del protagonista) e perfino espressioni quasi pedissequamente riportate, tanta e tale è la loro forza espressiva. E poi "La famiglia di Pascual Duarte" del Premio Nobel Camilo José Cela, per cui si parlò addirittura di "letteratura tremendista", termine che mi è sempre sembrato eccessivo, finché non mi è capitato tra le mani "Il figlio del padre" di Víctor Del Árbol, e mi sono ricreduto. Mentre ponevo mano alla narrazione mi sono imbattuto in un romanzo di Domenico Dara che porta lo stesso titolo del mio. Onde evitare spiacevoli e pretestuose ripercussioni ho pensato di cambiare il mio titolo originale in "Mal inverno", ma la soluzione non mi piaceva. Per cui l'ho lasciato tale e quale. Dara si riferisce al cognome (assai diffuso, mi dicono, nell'alta Lombardia) del suo protagonista, io a una stagione malevola. E al mondo c'è posto per tutti. VALERIO DI STEFANO Note aggiuntive : come sinfonia Livorno è sinfonia pura. È contraddittoria, variegata, accogliente e menefreghista allo stesso tempo. E il bello è che nessuno se ne fa un cruccio o un qualsivoglia malumore. Per questo ho deciso di suddividere questa narrazione in quattro tempi, o scansioni narrative, corrispondenti alla struttura della composizione sinfonica tradizionalmente intesa. Le ho corredate dalle notazioni in italiano tipiche del genere, giocandoci un po’ sopra. Per l’ultimo tempo ho usato il tedesco. Del resto Beethoven, Bruckner, Brahms e Mahler non sono un’opinione. Paradossalmente, però, consiglio allo sventurato Lettore di accompagnare la lettura di questa bagatella con l’ascolto dell’a Sinfonia n.8, detta « Incompiuta » di Franz Schubert. Che di movimenti ne ha due. Ciò che è incompiuto è sempre perfetto. E, come tutto quello che ha un finale aperto, lascio il moi scritto al suo destino, lo stesso di Armando Verticelli che ho creato, amato, allevato e perfino vezzeggiato, finché non se ne andasse da solo, per la sua cattiva strada. V.D.S. Bibliografia consigliata Del “Lazarillo de Tormes” esistono varie traduzioni italiane, non tutte felicissime, a dire il vero. Quella di Alberto Del Monte, ancorché datata, mi pare in assoluto la migliore. Il guaio è trovarla. Altri capolavori della narrativa picaresca sono stati sistematicamente ignorati dall’editoria italiana, ma dovrebbe essere ancora in circolazione la traduzione de “Il trafficone” di Francisco de Quevedo, ad opera di Maria Grazia Profeti. “La famiglia di Pascual Duarte” del Cela è stata tradotta in italiano nel 1942 da Salvatore Battaglia per i tipi di Einaudi e riproposta in occasione del conferimento del Nobel allo scrittore galiziano. Battaglia avrebbe potuto fare di più e di meglio, e questo è fuor di dubbio. Un bravo traduttore abruzzese, Pierpaolo Marchetti, invece, si è occupato, con risultati eccellenti, del testo di Víctor del Árbol “Il figlio del padre”. Lo si trova ancora in commercio. Finché lo si trova. Indice Lettera di accompagnamento 7 ANDANTE. FINALE CON FUOCO. 9 UN POCO MODERATO 23 LARGO CON CALMA. MOVIMENTATO ASSAI. 33 STURMLICH 41 AD LIBITUM 47 Parole finali 51 Note aggiuntive : come sinfonia 53 Bibliografia consigliata 55 Youcanprint Finito di stampare nel mese di maggio 2023